I codici linguistici

Abbiamo visto, molto superficialmente, come le emozioni possano essere comunicate attraverso il linguaggio del corpo. Alcuni scienziati riconoscono nel livello non verbale della comunicazione la percentuale d’incidenza maggiore (55%) relegando quella del linguaggio verbale a un 7%.[1]

Senz’altro l’uomo ha comunicato prima con il corpo e poi con le parole. Il motivo di una percentuale d’incidenza così bassa del linguaggio verbale risiede probabilmente nel fatto che quest’ultimo è un linguaggio appreso.

Tuttavia, se trascurato, può a mio avviso inficiare l’efficacia della comunicazione.

Partiamo dall’assunto che in una relazione vi sia qualcuno che manifesta il bisogno di essere ascoltato e che uno strumento che potremmo considerare d’uso immediato è la parola con il suo codice principe: la lingua.

La lingua è un sistema di segni che, associati, recano dei significati e rendono possibile un livello di comunicazione condivisa se conosciuti da entrambi i parlanti. Pensiamo banalmente al codice della strada: conoscerne i “segni” (in questo caso segnali) permette di usarlo e di decifrare pericolo, divieti, limiti ecc. a più avventori contemporaneamente.

Nella mia personale esperienza di lavoratore dello spettacolo e insegnante di public speaking, ho incontrato sovente negli altri la paura di parlare. Non mi riferisco alla paura di parlare in pubblico. Intendo: paura pura e semplice di esprimersi a parole.

Ho cercato di interrogarmi sui motivi di questi freni. Uno potrebbe essere la tendenza, nell’essere umano, a nascondersi dietro le proprie lacune in fatto di apprendimento, pur di non prendersi la responsabilità del proprio sentire. Analizzando più da vicino la questione della lingua, in seguito a decine e decine di colloqui con persone che presentavano un problema d’inibizione dell’eloquio,  sono saltati fuori alcuni tratti comuni:

1. Pregiudizio culturale verso chi ha padronanza espressiva. Colui o colei che presenti un corredo grammaticale, sintattico e morfologico consistente intorno alle proprie argomentazioni, ispira una sorta di sentimento malevolo di sudditanza costrittiva che inibisce la libera espressione delle emozioni tramite le parole;
2. Scarsa familiarità con un utilizzo consapevole della fonetica e di una buona dizione. Chi esibisce l’arte del “ben parlare” viene tacciato di falsità, scarsa autenticità (poiché lo studio della dizione si riconduce, erroneamente, solo ad attori e doppiatori che, per professione, fingono) e classismo;
3. Tendenza ad associare un ampio utilizzo del lessico con altezzosità e snobismo invece che a una virtuosa “ruota di colori” semantica.

In poche parole: chi “sa pescare le parole dal mazzo” è visto come superiore, più dotto, più intelligente. Ben lungi dall’essere queste qualità considerate virtù, per motivi storici e culturali che non ha senso indagare in questa sede, il “parlatore agile” instilla un senso d’inadeguatezza nell’interlocutore che, piuttosto che ristabilire un rapporto sereno con la propria cultura della lingua, preferisce dichiararsi incapace di esprimersi e inibisce il proprio parlato, fabbricandosi un’idea ostile o un senso d’inferiorità verso chi sfoggia padronanza di linguaggio.

Conoscere la propria lingua in tutti i suoi aspetti può rivelarsi una prima strategia per investire positivamente su essa, e allenare la chiarezza espositiva può portare di riflesso a una maggior chiarezza del concetto che si vuole esprimere in ragione di un’emozione a esso collegato.

A sostegno di quanto detto finora, riporto un esercizio che viene dal teatro. Nella fattispecie dal metodo di Bernard Hiller[2].

Uno degli esercizi proposti dall’acting coach è quello di fare, come prima cosa, l’analisi grammaticale delle proprie battute, parola per parola. “Il motivo di questa scelta”, sostiene Hiller, “è che se non conoscete il significato preciso di ogni parte del discorso e il ruolo che ogni parola ha nella logica di una frase, non potrete capire fino in fondo il processo di costruzione dell’emozione che genera quella battuta”.

Per quanto siamo nell’ambito dell’arte di ascoltare nel quotidiano, sarebbe superficiale trascurare, anche da parte di un professionista, i limiti che un rapporto conflittuale con la lingua presenta, anzitutto, nella definizione dei propri stati d’animo. L’interlocutore “a corto di parole” percepisce di essersi espresso parzialmente quando si scontra con il limite della propria competenza linguistica. Il buon professionista dell’ascolto saprà fare appello a competenze emotive specifiche per cogliere il momento e non far sentire giudicato il parlante; più verosimilmente invece, in uno scenario di vita quotidiana, di fronte a un’“impasse” dialettica, l’atto dell’ascolto potrebbe arrestarsi per imbarazzo o paura: “Se non ti va di parlarne, non fa niente” oppure “Va bene, non ne parliamo ora che vedo che non ti va”.

La conseguenza sarà che il richiedente ascolto interromperà, molto probabilmente, una comunicazione ormai percepita come “difficile”.

[1] È il caso di Albert Mehrabian.

[2] La tecnica di recitazione di Bernard Hiller, famosa in tutto il mondo, è basata sulla combinazione del Metodo (Lee Strasberg), Stella Adler e Sandy Meisner.