Perché noi italiani urliamo?

Nel prossimo articolo, questa breve e sommaria indagine sulla comunicazione, si sposterà nell’ambito delle relazioni professionali d’alleanza.

Prima di procedere, tuttavia, desidero dedicare una piccola parentesi a un aspetto “particolare” del linguaggio para-verbale che ci riguarda da vicino: noi italiani parliamo ad alta voce!

Provando a scovare qualche informazione sul web mi sono reso conto che non ci sono numerose ricerche in merito e che esiste una coscienza sociale del fenomeno ma non se ne prova a dare una spiegazione.

Forse, romanticamente, lo si vuole considerare un tratto distintivo della popolazione e non si sente il bisogno di ricercare le cause di un comportamento che, pure, è specifico e spesso avvertito come fastidioso.

Mi piacerebbe azzardare un’argomentazione in merito.

La nostra lingua è una lingua che “canta” poiché ricca di vocali. L’abbondanza di parole terminanti in sillaba libera (quasi sempre una in più rispetto alle altre lingue neolatine)[1] fa sì che la nostra favella richieda un investimento di fiato maggiore rispetto ad altri parlanti onde battere la sillaba finale per esigenze di chiarezza, con una voce conseguentemente più portata.  

Questa caratteristica è ancora più marcata se si mette l’italiano a confronto con una lingua di ceppo non latino.

Prendiamo un verso teatrale in inglese:

JULIET: the clock struck nine when I did send the Nurse

Sono dieci sillabe. Il verso (nella fattispecie il pentametro giambico) è una sintesi letteraria di un pensiero e, come tale, ha un suo ritmo mentale più “matematico” e codificato rispetto a un enunciato nella vita reale.

Cronometrando tre volte la battuta detta ad alta voce a un ritmo che risulti coerente con il pensiero (che parafrasato in italiano potrebbe essere reso con: “mi chiedo come mai la Nutrice ci metta tanto) avremo in media un tempo di pronuncia di 00:02,30 secondi.

Proviamo a vedere cosa succede quando volgiamo la battuta in italiano:

GIULIETTA: L’orologio batteva le nove quando ho mandato la Nutrice.

Il computo riporta il doppio delle sillabe rispetto all’originale inglese. Diciotto se si apostrofa “quand’ho” e se si traduce “Nurse” con “Balia” al posto di “Nutrice”. Il tempo medio di pronuncia è di 00:03,30 secondi.

Cosa sta a significare questo piccolo esperimento? Che il ritmo del pensiero visuale, presumibilmente lo stesso in entrambi i casi, in italiano corre più velocemente rispetto al ritmo di scansione della battuta (e, per estensione, dei plurisillabi in generale). E’ pur vero che le parole corrono con le immagini mediante associazioni apprese cui, ormai, siamo abituati. Chiediamoci però a che prezzo. Mentre in inglese il monosillabo “clock” evoca immediatamente nell’ascoltatore l’immagine del quadrante e delle lancette, in italiano abbiamo ben quattro sillabe per la stessa parola. Avremmo davvero bisogno di tutte e quattro le sillabe per capire di cosa si sta parlando? Proviamo a coprire la parola sillabata di seguito con un foglio e facciamolo scorrere da sinistra verso destra e capirete di cosa sto parlando:

O                R                O                L                O                G        

Già alla lettera L il vostro cervello ha avuto una prima intuizione del significante; scoperta l’intera parola non ci sono stati dubbi sulle ultime lettere, specie perché possiamo inserire la parola nel contesto (passaggio imprescindibile nella lingua inglese ove, peraltro, è l’articolazione delle consonanti ad assicurare la chiarezza).

È piuttosto improbabile che l’”OROLOGIAIO” battesse le nove.

In conclusione, si potrebbe giustificare la tensione vocale italiana con l’esigenza di riempire un vuoto visuale tra una parola e un’altra tramite un aumento del volume. Un po’ come urlare quando siamo sulle montagne russe.

Un’altra reazione a una sillabazione ridondante può essere il “risparmio” sui tempi del dialogo che ci porta, spesso e di riflesso, a non rispettare i turni conversazionali producendo, di conseguenza, un discorso fastidiosamente ricco di accavallamenti. La conseguenza è che ad ogni accavallamento, per essere uditi, sovrastiamo l’interlocutore ancora nell’atto di proferire parola alzando di un poco il volume (cosa non si renderebbe necessaria in spagnolo o in francese perché il tempo di battitura delle sillabe, mediamente inferiori in numero, è sempre e comunque più breve che in italiano).

Familiari a un’architettura discorsiva che predilige sovente il formalismo ai contenuti, interrompiamo senza accorgercene il flusso di parole per esigenze di sintesi (si pensi a quando un giornalista rampante imbecca un parlamentare con la versione più diretta di un giro di parole in “politichese”) o, peggio, perpetriamo il vizio di anticipare e pronunciare l’ultima sillaba insieme con l’interlocutore perché avvertita come “in più” (si veda l’esperimento della battuta shakespeariana).

Tutti questi meccanismi sembrerebbero concorrere alla produzione di una comunicazione non distesa che appare, per esempio alle popolazioni del nord Europa, aggressiva.

Ricordo che durante uno scambio culturale in Estonia, nelle Repubbliche Baltiche, gli autoctoni erano convinti che noi italiani stessimo litigando mentre sceglievamo dove andare a cena.

Seguendo la tabella di Scherer, in effetti, potremmo dire che spesso la voce dell’italiano medio durante una conversazione da bar o al ristorante o in un treno presenta contemporaneamente la valenza stretta, molto tesa e molto piena (i parametri della collera) ed è per questo motivo che in un locale italiano c’è sempre un livello di rumore notevole che desta sguardi spaventati o smarriti negli avventori stranieri.

Chiediamoci dunque quali effetti susciti questa abitudine a una fonazione così impattante a livello uditivo (unita alla altrettanto nota tendenza a una gestualità esasperata) sugli interlocutori di altri paesi, ad esempio. Effetti d’ilarità se siamo in un pub; effetti potenzialmente dannosi se siamo sul piano della politica estera o degli scambi diplomatici con altri paesi.

In conclusione, pur conosciuti nel mondo per essere straordinari cantanti d’opera, attori eccelsi ed eredi dell’ars oratoria più raffinata, eco di fori ciceroniani, noi nativi del Belpaese risulteremmo, in quest’analisi, poco favoriti all’ascolto dal nostro stesso codice linguistico.

[1] Si pensi alla parola “Amore”. In FR.: A-mour (2 sillabe); in ES.: A-mor (2 sillabe); in ITA.: A-mo-re (3 sillabe).